lunedì 29 ottobre 2012

Talento e libertà, ovvero: la scuola che ci auguro

@ wissenteilen.wordpress.com

Intorno ai 10 anni cominciai a leggere il ciclo dei romanzi di Mary Louise Alcott e ne rimasti affascinata, tanto da proiettare sulla protagonista le mie ambizioni bambine di autrice in erba. Scrivere m'impegnava tutto il tempo libero che riuscivo a ritagliare alla scuola e, per quanto ricordi ore trascorse in giardino a giocare, soprattutto a nascondino in cui avevo perfezionato una tattica raffinatissima, la mia memoria ha un brivido di confidente gioia quando sfoglia le istantanee dei pomeriggi a ricamare acrobazie di grafite su montagne di notes.

Poi venne la mia prima macchina da scrivere, Olivetti Lettera 22. La sistemavo su una sedia che tiravo vicino al letto dove stavo seduta, un po' china, come il pianista Schroeder di Linus. Infilavo il foglio bianco nel rullo, giravo la manopola a destra per sistemarlo a filo, facevo scorrere il carrello per inaugurare l'incipit e le dita impacciate cominciavano a tippettare con forzosa grazia, a costante rischio di restare intrappolate tra le zampe d'insetto (grasso e peli di polvere) della tastiera. Sogno vintage che, per inciso, ho rivisto in una vetrina di robivecchi, non molto tempo fa e la tenerezza della nostalgia che mi ha abbracciato il cuore mi ha spinta, bocca aperta e sguardo sognante, a schiacciare il naso contro la vetrina, nello sforzo di carpire al nero metallo sconosciuto i segreti ed i ricordi miei.


Era stata la nuova maestra Maria P. a schiudermi i cancelli arrugginiti e negletti di quel giardino incantato in cui si avviluppavano i rami della letteratura. Si era materializzata in quarta elementare, quando ormai disperavo di trovare una qualche fonte di gioia nella scuola, tormentata com'ero dalle battute bieche della sua collega che non perdeva occasione di ridicolizzare le mie domande filosofiche, che cercavano di cavare sangue da quella rapa delle materie scientifiche. Ricordo ancora le risate della classe intera quando, all'introduzione dell'abaco-pallottoliere in legno con cinquine di colore diverso, azzardai: “perché c'è il nero per le unità, il rosso per le decine, il blu per le centinaia ed il verde per le migliaia? Perché non altri colori?” Ero convinta che la scelta non potesse essere stata casuale, che racconti affascinanti affondassero le loro radici in tempi remoti; non lo seppi mai, in compenso mi travolse l'ondata d'uno sghignazzo collettivo.

Ci aveva fatto dannare per anni negli spietati gironi della matematica che aveva perseguitato me e travagliato mia mamma che ogni sera, investita dell'istinto crocerossino di farmi digerire l'ostico medicamento, mi propinava calcoli e problemini. Lei ce la metteva tutta per beffare il mio istinto creativo nella speranza che le storielle improbabili, con cui incorniciava le operazioni, lo distraessero dalla scabra precisione metallica di quella scienza esatta. Era proprio su quell'appiglio di mamme al mercato in cerca di mele che faceva leva la mia birichinaggine: invece di concentrarmi sul prezzo al Kg, io saltavo sul tappeto volante delle mille ed una possibilità e decollavo per l'ennesimo volo pindarico. Licenziavo le asciutte ed affilate cifre e mi perdevo ad immaginare la passeggiata fino alla bancarella, che stagione era? Sicura che volesse delle mele? Magari invece mandarini? E chi ha incontrato, la mamma, davanti alla panetteria? Perché ce n'era una, giusto? Come la nostra, proprio sulla piazza... Ed era più o meno qui che arrivava l'urlo “Deboraaaaaaaaaa!” a richiamarmi – volo avvitato a turacciolo MAYDAY-MAYDAY – in picchiata sulla terra.

Maria invece insegnava Italiano, non so se fu il prodotto di una qualche salvifica riforma della scuola, ma senza dubbio quel libro dell'umorista inglese Jerome K. Jerome (Tre uomini in barca) che schiuse in classe come un vaso di Pandora, rappresentò la zattera di salvezza su cui mi buttai con un gorgoglio strozzato da mezza annegata.

Dopo di lei, ebbi il privilegio di conoscere altre insegnanti (Giuseppa F., Laura R., Renata R.) che, in modi diversi e non sempre consapevoli, mi hanno aiutata a scoprire e forgiare il mio talento (che poi del mio talento ci campi, è un'altra storia...). So di essere stata molto fortunata ad aver incontrato le persone giuste, ad averle identificate al di sopra della mediocrità e averle elette, di volta in volta, stella polare della mia rotta. Non sempre è così, anzi, nella maggior parte dei casi la scuola aliena, è causa prima del disamore per lo studio. Questo è un tema che mi sta appassionatamente a cuore, forse perché lo studio l'ho amato in maniera viscerale, tanto da farlo diventare parte imprescindibile della mia condotta cognitiva, ma anche perché mi addolora riconoscere intorno a me tante potenzialità irrisolte e frustrate.

Ecco, ho iniziato questo post dalla fine, ma ci sono troppi pensieri in libertà in campo, ora vediamo se riesco a mandarne in panchina qualcuno, nello spogliatoio qualcun altro e poi s'inizia a giocare con i ventidue regolamentari.

Di scuola e formazione mi occupo da un po', da osservatrice esterna, potenziale educatrice, sempre oscillando tra l'una e l'altra parte della barricata. A dir la verità, sono alla ricerca di un sistema scolastico che mi soddisfi e per quanto abbia conosciuto modelli educativi lodevoli (Montessori, Steiner) e segnalato sul blog esempi d'avanguardia (si veda il post dell'ottobre 2011 sulla “scuola inmovimento” di Macolin), pure la mia ricerca non è approdata ad un risultato [completamente] soddisfacente. Sento però, pur procedendo a tentoni, di essere sulla strada giusta.

È una sensazione che provo spesso, e sono certa di non essere la sola, e che ho battezzato 'della lampada di Tesla'. Negli anni '80 erano di gran voga quelle sfere al plasma in cui da un nucleo fosforescente si dipartivano i tentacoli frenetici e sincopati di filamenti elettrici, una matassa nervosa di scariche colorate, come zampette di ragno in preda alla taranta. Quando quei filamenti sfioravano con una carezza da ventosa la superficie di vetro, un ronzio sommesso ci avvisava della tensione in gioco, fino a renderla palese nel fulmine di scariche assemblate che si allungava verso il nostro polpastrello quando appoggiamo il dito sul vetro.

Ecco, capita a volte di sentirsi catalizzatori di congiunture 'cosmiche', che ci trascendono e assecondano le nostre inclinazioni più veementi, fornendoci, senza sforzo, la guida eccentrica e spesso lacunosa, pure reale, di un sentiero di sassolini che, come Pollicino, ci guiderà verso 'casa'.
 
Uno di questi sassetti l'ho avuto, inconsapevole, tra le mani l'estate da poco passata, quando ho alternato alle esplorazioni alpine la lettura di un saggio datato ma attualissimo, di Domenico Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso (1995, Feltrinelli ed.).

La cosa curiosa è che questo libro è finito nella mia rete durante una delle battute mensili di pesca a strascico che faccio nella biblioteca universitaria. Cinque piani (rispettivamente sotto e fuori terra) stipati di libri in cui mi aggiro per ore, innamorata e dimentica del mondo di fuori. Sfoglio, sfioro costole ruvide o lisce, titoli incisi o stampati, leggo stralci della quarta di copertina; a volte bastano poche parole e scatta il colpo di fulmine: questo! E lo aggiungo alla pila che reggo in braccio.

Starnone fa il punto sul sistema scolastico italiano e sulle ragioni storiche che ne hanno determinato il fallimento. Ne riporto di seguito alcuni stralci:
 
“La società liberale s'era impantanata, nei primi anni di questo secolo [parla del 1900, ndr], intorno al bisogno di istruzione come riscatto sociale. Le masse – s'era gridato da più parti – abbassano la qualità dell'istruzione. Il fascismo aveva cercato di imbrogliare le carte e, relegando in secondo piano il nesso scuola-impiego, s'era adoperato propagandisticamente per dare alla scuola soprattutto la funzione politica di formare buoni fascisti [...]. La Repubblica ora stava restituendo lentamente vigore alla tendenza a considerare lo studio come uno scotto da pagare per collocarsi con maggiori opportunità sul mercato del lavoro. C'era una sventagliata di indirizzi di studio, tanti quanti erano i gradi della gerarchia sociale; o, più raffinatamente, diverse opzioni. In effetti le diverse opzioni in fatto di studio rimandavano a lavori diversi. E le diverse opzioni di lavoro a gerarchie socioeconomiche, a vite gerarchicamente catalogabili. Lo studio agiva come un'opportunità in più contro la disoccupazione e per un'occupazione non troppo umiliante. Anche oggi è così: anzi gli indirizzi di studio si sono moltiplicati. Si dice che è un modo per venire incontro alle differenze individuali, alle diverse attitudini. Non è vero, ci sono tanti modi per potenziare differenze e coltivare attitudini, all'interno di un vero grande processo di istruzione pubblica. Ogni pubblica istruzione, invece, che preveda diversi indirizzi di base, speculari alla graduatoria dei lavori, è classista, fiancheggia la struttura classista della società. La scuola della Repubblica italiana era – è – una scuola classista, che proprio nel suo esplicito rivolgersi ai capaci e ai meritevoli, riproduceva – riproduce – la composizione di classe.”

Il testo è del 1995 e la situazione è, se possibile, peggiorata. C'è però una differenza nel modo di reagire dei diplomati e laureati (o persino dottorati) di oggi rispetto agli alunni di Starnone. Alle soglie del 2000 i giovani si potevano ancora permettere l'astio, dopo un balzo nel mondo del lavoro che si era rivelato uno spericolato salto in una piscina vuota, tornavano a scuola dal loro vecchio professore a lamentare la loro frustrazione: lo studio aveva promesso di escludere fatiche, orari, subordinazione, eppure si erano ritrovati intrappolati in un lavoro che ne annichiliva l'entusiasmo con lo sberleffo aggiuntivo di prescindere dal loro titolo di studio.

All'epoca le ragazze ed i ragazzi erano, forse, ancora 'choosy'. Pretendevano un'occupazione che rispecchiasse il loro iter di studi, che fosse traduzione concreta delle loro aspirazioni. Questa nuova generazione, che si trova di fronte ad un divario ancora più profondo, oltre alla rassegnazione (perché è quello che la rabbia piena di 'pretese' dei predecessori è diventata, con il tempo) deve sopportare lo sfregio di una classe dirigente che, attraverso la ministra del lavoro e delle politiche sociali dell'attuale governo tecnico, Elsa Fornero (ma è solo la più recente), la accusa di 'schizzinoseria'.

Mi sono chiesta come sia potuto succedere che la scuola abbia disatteso le finalità fondamentali della sua istituzione: formare buoni cittadini conferendo loro un bagaglio di ricchezza intellettuale da mettere a frutto nella vita che sceglieranno di intraprendere ed offrire una fucina-laboratorio che addestri e prepari all'impiego pratico nel mondo del lavoro. La causa è forse nella sua storia. La scuola nasce nell''800 come strumento per la selezione sociale e, nelle intenzioni, avrebbe dovuto restare appannaggio esclusivo delle classi privilegiate. Con il tempo, poi, nuove fasce sociali hanno rivendicato il diritto allo studio e la pubblica istruzione, sostanzialmente impreparata all'invasione, ha reagito opponendo un'energica resistenza alla scolarizzazione di massa, ben sapendo di non essere in grado di rispondere ai nuovi problemi didattici che sarebbero prevedibilmente sorti.

Le conseguenze sono state drammatiche e le soluzioni che la scuola ha elaborato per fronteggiarle, si sono rivelate “palliative o del tutto inutili” (cito Starnone). Per tenere a bada il volgo chiassoso ed ineducato, a cui la cultura del libro era ignota, si è fatto ricorso a disciplina e terrore. Una selezione darwiniana ha poi fatto il resto, smistando progressivamente due gruppi di studenti-tipo: quello dei 'bravi' che tengono dietro al programma e quello delle 'zavorre', il cui percorso coatto assume presto i connotati di un piccolo calvario in cui si barcamenano per uscirne con minor danno possibile, si trascinano tra noia e rassegnazione ed un disperato senso d'inutilità. Si è dato così impulso alle lezioni private, alle ripetizioni, che sono di per sé un annuncio di sconfitta, poiché una scuola di massa dovrebbe assicurare la crescita di tutti; e alle scuole private – che di quella sconfitta, sono l'apoteosi. “Non c'è il ragazzo che 'non ce la fa'” ritiene Starnone, “è la scuola che non riesce a operare in modo che il ragazzo ce la faccia. La scuola non è capace che di ratificare l'incapacità degli alunni, è fatta per i migliori, non per chi vuole diventare migliore.”

È tristemente vero, purtroppo. E lo è da decenni ormai. Me ne rammarico perché vorrei invece poter leggere negli occhi delle ragazzine e dei ragazzini, che affollano i cortili nell'attesa della campanella, un guizzo di gioiosa aspettativa, confidente attesa, agitata eccitazione nella consapevolezza delle scoperte ed esplorazioni che li aspettano appena varcato il portone d'ingresso. Vorrei sentirla quell'elettricità, quella tensione creativa, quella, oserei dire, gratitudine. Sì, perché poter accedere all'istruzione è un diritto che in alcuni paesi si sconta a caro prezzo. Conoscere abbatte i pregiudizi, le superstizioni, riscatta dall'ignoranza, allena al pensiero critico, sollecita alla ricerca della verità, forgia gli strumenti dell'autodeterminazione. In una parola rende LIBERI.

Un gesto, da bambina, mi appassionava particolarmente al gioco del nascondino. C'era certo tutta una fibrillazione nella fuga, nell'accucciarsi in un anfratto segreto – il battito del cuore nelle orecchie, il respiro affannato che rischia di tradire il rifugio – nello sguardo che scorre a rintracciare gli altri, mentre la conta sgocciola gli ultimi numeri. Poi l'attesa, quella pastosa sospensione elettrica fatta di silenzio coatto e passi guardinghi, che prendeva fuoco allo scoppio dell'urlo di guerra che lanciavamo per farci coraggio e affrontare, con le ali ai piedi, il vuoto pneumatico tra la nostra cuccia e la 'casa'. Amavo tutto di quel gioco, la tattica, la pazienza, la velocità, ma il gesto finale, che mi capitava spesso di fare perché mi dilettavo di strategia ed ero dannatamente veloce a correre, mi faceva spumeggiare nel cuore un deliquio d'euforia. Era lo schiaffo che davo al muro, d'insulto anarchico alla 'legge' del guardiano che ci dava la caccia, di possesso autoritario ed instaurazione di un nuovo mondo che annunciavo con grido orgoglioso e selvaggio:

“LIBERI TUTTIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!”

Tutti! Tutti liberi. E li avevo liberati IO. Roba da andarci fieri fino alla prossima partita, almeno.

Ecco questo voglio, per questi ragazzi oggi. E mia figlia con loro. Li voglio liberi.

Un'amica che raccontava del discorso di benvenuto ai genitori in una scuola elementare di Lörrach, nella vicina Germania, ha citato, piena di ammirato stupore, le parole semplici e potenti del direttore, parole che hanno avuto un'immediata risonanza in me: “ritengo che lo scopo di un insegnante sia di non far appannare quello speciale lampo di curiosità che brilla negli occhi dei bambini al primo giorno di scuola. Suo dovere è, al contrario, nutrirlo, farlo crescere, affinché si trasformi in un fuoco che possa accompagnarli per il resto della loro vita.” Sarò ipersensibile ma mi è venuto un groppo alla gola e lacrime di gioia mi annacquavano lo sguardo: un altro sassolino, siamo nella direzione giusta!

Come facciamo a trasformare l'ispirazione illuminata di un singolo (di tanti singoli, non ne dubito) in una nuova corrente deontologica? Quale vocazione (vorrei tanto poterla chiamare così) dovrebbe scoprire la scuola per rinnovarsi ed investire su obiettivi adeguati?
Un'idea me l'ha data il terzo sassolino: un certo Sir Ken Robinson, di cui ho fatto la conoscenza in un video dei TedTalks di due anni fa. Anche lui si occupa di apprendimento, ma affronta il tema da un punto di vista particolare, quello, in genere trascurato, del talento. La crisi, secondo lui, parte dall'incapacità dell'istituzione scolastica di riconoscere e promuovere i talenti, anzi spesso addirittura li aliena, allontana gli individui dalle loro capacità peculiari. Dimostrazione ne è il fatto che la maggior parte delle persone ignori persino di avere qualità distintive. Conseguenza è che invece di offrire alla società la propria ricchezza, adeguatamente investita e promossa, gli individui intraprendono lavori che non li rappresentano e che diventano poi causa di un'esistenza più o meno profondamente frustrata. Coloro che amano il proprio lavoro al punto da identificarsi con esso (io 'SONO' uno scrittore, non 'FACCIO' lo scrittore) sono pochissimi.

“Le risorse umane sono come quelle naturali; spesso sono sepolte in profondità” ammonisce Robinson, per questo bisogna andarle a cercare, saperle riconoscere, creare le circostanze giuste in cui possano fiorire. Un affascinante processo di scoperta e valorizzazione di cui dovrebbe occuparsi la scuola, ma questo succede raramente.

Starnone non era approdato lontano da questa considerazione. Lui non cita i talenti, bensì la storia degli allievi, quel percorso di vita che comprende la famiglia (e la televisione) e ha preceduto la scuola. Un insieme di esperienze che ha messo radici profonde e che in genere gli insegnanti occultano consciamente o combattono strenuamente. Starnone consiglia di mettere a nudo quel passato, non solo in quanto rappresenta la condizione 'preliminare' dell'allievo, ma anche perché potrebbe offrire qualcosa di utile; è a quell'enciclopedia personale che si dovrebbe fare appello per fondare un rapporto didattico finalmente fruttuoso.

“[...] Ciò che precede la scuola – una volta erano solo culture, linguaggi, abilità familiari e regionali; oggi è un mare ribollente di immagini e linguaggi planetari, di culture e subculture trapiantate dai luoghi più disparati, di spezzoni d'ogni tipo e d'ogni tempo la cui provenienza è spesso ignota persino a chi li ha captati – ha occupato il corpo per primo, ha messo radici più profonde, si accampa il diritto del primo arrivato. I 'precedenti' hanno oggi più forza che in qualsiasi altro tempo.[...]”

Si potrebbe allora, per esempio, ricominciare da qui, perché in quel pregresso sono spesso riconoscibili, in nuce, le vere potenzialità dello studente. Il talento è un furfante malizioso che, ansioso di essere scoperto, semina indizi a piene mani, basta aver voglia di seguirli, come i sassetti di Pollicino.

Se questa è la premessa deontologica, un'idea di metodo la possiamo trarre da Sir Ken Robinson che suggerisce, nel video succitato, di affrontare il percorso scolastico, l'educazione, in un modo nuovo, che escluda la linearità. Per chiarire il concetto cita una pubblicità, che campeggiava nelle strade di Los Angeles, esemplificativa del modello industriale/manifatturiero a cui si conforma l'istruzione dei nostri tempi: “college begins in kindergarten” (“il college inizia all'asilo”). Il successo di un individuo sarebbe segnato fin dai primi passi, per questo un solido inizio rappresenterebbe la garanzia di uno sviluppo in progressiva ascesa. La realtà è però un'altra. “Un bambino di 3 non è la metà di uno di 6” (cito Robinson) e l'esistenza umana si dipana secondo criteri eccentrici, simbiotici, per nulla lineari e meccanicisti. Si procede a tentoni, esplorando le proprie disposizioni naturali in funzione delle circostanze che offrono loro un'occasione espressiva. Il nostro sistema educativo è, invece, standardizzato, impoverisce il nostro spirito nel tentativo omologante di appiattire le differenze e produrre a tutti i costi universitari che saranno professionisti in campi socialmente ambiti (notai, avvocati, dottori). Le attitudini però sono le più variegate, fioriscono inaspettatamente, spesso si rivelano dopo lunghi silenzi, l'essere umano è una creatura 'naturale', per quanto facciamo di tutto per trasformarci in macchine, siamo esseri viventi con tutte le magnifiche [e funzionali] stravaganze che questo comporta.

Robinson brama un'educazione personalizzata, che si adatti agli studenti, offrendo una sorta di supporto esterno alle soluzioni che ciascuno deve, di volta in volta, trovare e sviluppare in modo indipendente. Utopia? Forse.

La Svizzera ha provato ad elaborare una soluzione al problema e nel 2009 un progetto pilota è stato inaugurato a Basel. Si chiama Begabungsfenster/pull out, dove il primo termine, tedesco, si traduce letteralmente 'finestra del talento' e il secondo, inglese, allude alla finalità dell'iniziativa: 'tirare fuori'.

Quest'opportunità non si rivolge a tutti, non siamo quindi ancora alla realizzazione di quell'offerta scolastica che auspicava Robinson, ma rappresenta un importante passo di avvicinamento, perché è espressamente rivolto a sostenere (non ancora a scoprire, ma se non altro a valorizzare) i talenti superiori alla media, quei bambini dotati a cui in genere era riservato il mobbing astioso dei compagni (che isolano il 'diverso') o la negligenza consapevole degli insegnanti (spesso non idonei a gestirlo). L'ammissione al programma avviene con l'intermediazione del servizio psicologico scolastico e, naturalmente, in sinergia con i genitori. Il bambino rimane nella classe originaria della scuola d'appartenenza e, una volta a settimana, segue le lezioni 'avanzate' in una scuola centrale, insieme ad altri coetanei provenienti da tutta la città. Si potrebbe immaginare che quella mattinata intensiva preveda un carico extra di materiale, approfondimenti, anticipazioni sul piano di lavoro scolastico classico. Tutt'altro ed è qui, infatti, il principio-guida davvero rivoluzionario a cui s'ispira il progetto. I bambini sono liberi di creare il loro programma, sono loro a presentare i temi che gli interessano o a scegliere tra una rosa di progetti. L'insegnante offre loro l'ampia cornice teorica preliminare necessaria a familiarizzare con gli strumenti ed i metodi utili per la realizzazione. Si insegna loro ad avvicinarsi al lavoro in modo “indipendente, coscienzioso, responsabile e curioso”, il che implica che sappiano orientarsi in città e siano in grado di reperire autonomamente (in museo, allo zoo) il materiale utile all'esecuzione del loro progetto. La loro motivazione intrinseca viene così incrementata e, poiché il talento è autoreferenziale e ama sfidarsi su campi in cui eccelle, è questa anche l'occasione per sviluppare le proprie capacità e magari scoprirne di nuove. Poiché, è vero che spesso le abilità sono ramificate e comprendono molteplici ambiti, ma solo ad uno è associata la passione. Quel fuoco interiore che sa essere motore di grandi imprese ma, soprattutto, artefice di un'appagante realizzazione personale. Il tipo di insegnamento è quello che si augurava Starnone, quasi 20 anni fa: un insegnamento tra pari, un'occasione di crescita unica. Grande attenzione è rivolta anche alle attività proprie del bambino, all'apprendimento esterno, al suo tempo libero, fattori che concorrono a definirne la personalità a tutto tondo e che la scuola può utilizzare come strumenti di sostegno (quelli che Starnone chiamava i 'precedenti'). Lo studente non è così appiattito entro una cornice omologata, ma diventa un essere a tutto tondo, in evoluzione, di cui si segue lo sviluppo (verificando, per esempio, periodicamente se il sostegno extra sia ancora adeguato), in uno scambio continuo con scuola di appartenenza, genitori e psicologi.

La finestra dei talenti è infine aperta sul mondo poiché attraverso un blog, aggiornato ogni giorno, i ragazzini raccontano dei loro progetti e delle loro esperienze. Chi fosse interessato può cliccare qui.

Il sogno è che questo progetto metta radici e si diffonda a comprendere tutti i livelli d'istruzione (per ora è ristretto alla scuola elementare), che non rimanga un'offerta eccezionale per pochi 'eletti', ma diventi prerogativa imprescindibile di un sistema scolastico generalizzato, qualitativamente alto, che opera contro la disuguaglianza sociale ed in funzione della crescita culturale di tutti.

Desidero concludere con l'augurio che Starnone fa a se stesso ed al personale docente, presente e futuro.

“Insomma, per essere all'altezza, dobbiamo diventare persone eccezionali. [...] la nostra piatta esistenza di piccoli impiegati incalzati dai bassi stipendi e dai bisogni del consumo, senza nemmeno un poco di fuoco nel petto se non quello dovuto all'infiammazione delle vie respiratorie, laicizzati in superficie dagli slogan ma feriti in profondità da pregiudizi inestirpabili, poveri di borsa e di spirito, essiccati dal disamore, cresciuti in una scuola e in una università che hanno incoraggiato tutte le cialtronerie, vissuti in una società sempre più imbarbarita dalla legge del Valore, chiusi da sempre in aule come in nicchie cimiteriali – la nostra piatta esistenza, dicevo, va rovesciata in quella di persone eccezionali.”


2 commenti:

  1. Ho letto con molto interesse quest'analisi che potrebbe essere la proposta per una riforma scolastica: analizzare il passato per impostare il futuro. Ottima ricerca, le tue ex insegnanti saranno orgogliose di te, brava. LuAip1951

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